Il blues a Pistoia: un espresso con Daniele Nesi
20 aprile 2021
Il nostro viaggio nel mondo della black music italiana inizia a Pistoia in compagnia di Daniele Nesi.
Lettrici e lettori di Jazzespresso benvenuti al primo appuntamento con la nuova rubrica che vuole raccontare la black music in Italia: oggi siamo in compagnia di Daniele Nesi, bassista, didatta e fondatore delle Pistoia Blues Clinics.
Com’è nato il tuo rapporto con il Pistoia Blues Festival?
Sono un pistoiese doc e vengo da un quartiere difficile. Quando ero bambino il circolo ARCI della zona investì nell’acquisto di strumenti musicali per allontanare i giovani dalle cattive strade. Insieme ad altri amici – tra cui il batterista Enrico Cecconi che ha suonato con Keb’ Mo’ e Larry Carlton, solo per citarne un paio – grazie alla musica sono riuscito a venir fuori da questa realtà sociale estremamente problematica. La mia generazione è figlia del festival: ricordo che da piccolo sgattaiolavo sotto palco per vedere i soundcheck. Capisci bene che essendo cresciuto in questo modo non potevo che dedicare la mia vita alla musica.
Nel 2010 hai fondato le Pistoia Blues Clinics. Cosa ti ha spinto a farlo?
Dopo aver suonato per diversi anni sul palco del Pistoia Blues sono andato dai direttori responsabili Federico e Giovanni Tafuro per proporgli di tradurre il blues in didattica. Come disse Oscar Peterson, il blues è “una trappola per gli stupidi”. Sembra facile ma non lo è: dietro ci sono delle tradizioni, delle regole che si basano sul feeling. Il blues è una vera e propria cultura. Da qui nascono le clinic del Pistoia Blues: un progetto sociale, per avvicinare i bambini alla musica suonata, senza rivalità. Si fa musica per il bello, per mettere in contatto le persone, per creare connessioni e abbattere le barriere. Il blues appartiene a tutte quelle persone che hanno voglia di socializzare ma che allo stesso tempo hanno sofferto e vogliono condividere questa sofferenza con altre persone. Il festival ha dato l’opportunità a tanti di noi di realizzare i propri sogni.
Dal tuo punto di vista, qual è l’aspetto più importante del Pistoia Blues Festival?
Al Pistoia Blues sono passati tutti, già negli anni ottanta grazie a Pistoia c’era un ponte tra l’Italia e Chicago. Tutto il resto è nato dopo. Durante il Pistoia Blues Festival tutta la città vive intorno alla musica afroamericana. In vari punti della città si esibiscono giovani artisti nelle piazze e nelle strade, ci sono jam session nei locali e non solo, è un festival in cui l’impronta della socializzazione si fa sentire a gran voce e, al contempo, con naturalezza. L’aspetto più importante è proprio questo: il festival è di tutti, porta a condividere e a socializzare.
Inoltre, come avrai intuito dal concept che sta dietro alle clinics di cui abbiamo parlato prima, c’è tanta apertura verso la nuova generazione, mi viene in mente l’iniziativa “Obiettivo BluesIn”.
Cosa significa per te “blues”?
Bella domanda, non basterebbe una vita per rispondere. Posso farti un esempio pratico guardando alla direzione artistica del festival, che spazia su vari generi. Non bisogna lasciarsi ingannare dal nome.
Il blues è ovunque, non è solo un genere musicale, è una filosofia di approccio alla vita. Per questo motivo, per diretta conseguenza, il festival è aperto anche ad artisti che non si occupano di blues tradizionale.
Parlaci di te, quali sono i tuoi programmi post emergenza sanitaria?
Vorrei investire nella musicoterapia attraverso il blues. Ho 50 anni suonati e voglio, anzi devo mettermi a disposizione della comunità. È da una vita che faccio musica, non posso più pensare solo a me stesso, è un ragionamento abbastanza naturale. Quando si fa musica siamo tutti uguali, non c’è colore, ognuno mette del suo. È arrivato il momento di dare me stesso alla comunità. Sto anche prendendo la laurea AFAM presso la scuola di musica di Fiesole, dipartimento Jazz. La voglia di fare non smette mai di esistere, la voglia di mettersi in discussione, di non sentirsi mai arrivato nonostante decenni di esperienza da performer in Italia e all’estero.
Concludiamo con un consiglio alle nuove generazioni di musicisti.
Bisogna fare più attenzione al bello, alle cose fatte bene. Bisogna parlare con le persone prima di pensare ai grafici e ai trend. L’ha detto anche Bollani di recente, non si fa musica per l’ego, si fa musica per creare bellezza. La musica è bellezza. L’arte è bellezza. Cari giovani, l’Italia ha bisogno di un bel ricambio generazionale, fate come si faceva venti o trent’anni fa, andate dalle pro loco, parlate con il Comune e organizzarsi i festival da soli, smuovete le acque, il futuro della musica è nelle vostre mani!
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