Jazz Re:Found un espresso con Denis Longhi

29 agosto 2021

Prossima fermata del #bluemamaexpress > Jazz Re:Found: abbiamo intervistato Denis Longhi.

Lettori e lettrici di JazzEspresso, vi dò il benvenuto al quinto episodio di #bluemamavibes. Oggi siamo in compagnia di Denis Longhi per un’intervista alla scoperta della realtà black più avanguardista dello stivale: il festival della musica del futuro, Jazz Re:Found.

> Gabriele Sinatra


Perché Jazz Re:Found?
A fine anni ‘90 abbiamo iniziato a frequentare la Londra pre Gilles Peterson e in quel contesto, dopo Talkin’ Loud, ci fu una sorta di revival del jazz da ballo non più stucchevole come i decenni della fusion. Ovviamente non si parla di jazz puro, ma futuristico, stile Cinematic Orchestra per esempio.
In sintesi abbiamo preso spunto da quella visione, che aveva anche un luogo e un nome: la serata Jazz ReFreshed dell Mau Mau Bar, tra Nothing Hill e Portobello. Tornando a Vercelli abbiamo provato a trasportare questa cultura da noi, spingendo tra i clubber degli anni Novanta che si stavano un pochino emancipando ed erano sensibili ai nuovi linguaggi.
Un po’ come omaggio a Jazz Refreshed e un po’ come adesione ad un manifesto del momento abbiamo iniziato a chiamare le nostre prime serate Jazz Re:Found, per dare un’idea di jazz ricostruito, rilanciato; una sfida alla tradizione per capirci. Abbiamo cercato di restituire al jazz la sua dimensione di protesta e di avanguardia, andando forse addirittura oltre al concetto di avanguardia.
Dal 2000 abbiamo iniziato ad autoprodurre delle serate in dj set o live band in cui eravamo noi stessi a suonare e promuovere le nostre stesse serate. Poi dal 2005 abbiamo iniziato ad ospitare altri artisti chiamando quelli che erano un po’ i nostri idoli. Nel 2007 è iniziata la firma vera e propria del Jazz Re:Found dedicata alla scena londinese, tra rassegne, serate one night e così via. Infine, abbiamo successivamente provato a riprodurre i festival inglesi in cui la gente resta a dormire in tenda.
Quali requisiti deve avere un artista per entrare nel radar della tua direzione artistica?
La fortuna ha voluto che all’inizio del nostro percorso tutti quegli artisti che oggi sono considerati i big del settore – come Hiatus Kaiyote – non erano ancora davvero big e, di conseguenza, erano accessibili e perfettamente in linea con la nostra idea artistica. Cerchiamo sempre di portare tutto ciò che si trova al confine tra il brand new e il mainstream: immagina un Anderson Paak prima che diventasse famoso. L’esercizio è stare molto a fuoco e sempre sul pezzo, frequentando i luoghi in cui questa musica arriva in anticipo.
Quando non c’è una pandemia globale in corso frequento personalmente luoghi come i Worldwide Awards al Koko di Londra o il We Out Here Festival nelle campagne inglesi, posti in cui oltre ai main stage ci sono una decina di palchi secondari stracolmi di artisti incredibili, tutti da scoprire e portare in Italia. Per me e la mia visione di questo lavoro il viaggio è importante. La pandemia è stata abbastanza deleteria da questo punto di vista perché ha un po’ impedito di lavorare alla vecchia maniera.

Quali sono le scelte artistiche di cui vai più fiero?
Considerando il fattore equilibrio tra qualità ed economia, ti dirò che sono molto contento degli Snarky Puppy, anche se non sono proprio il mio sound, forse un po’ troppo prog per i miei gusti. Mark Rebillet è stato pazzesco, uno spettacolo vero: immaginati un Jacob Collier che però la butta anche in caciara. Mi viene in mente anche Roy Ayers: nonostante l’età, ha messo su uno degli spettacoli più belli che abbiamo mai organizzato. Non posso dimenticare i Cinematic Orchestra nel 2010, quando ancora non erano esplosi, o la prima data italiana di The Comet Is Coming: artista che ha dimostrato che il jazz ha una nuova voce, un nuovo approccio, potente come segnale. Nel 2019 invece sono rimasto abbastanza sorpreso da Meute: ci fu una reazione incredibile del pubblico, un’intensità che non vedevo da tempo.
Parlando del presente, invece, sono molto contento perché ospiteremo finalmente Venerus, l’artista che mi ha riportato alla pace con la musica italiana. È il primo che, dopo oltre vent’anni, è riuscito a conquistarmi; per me sarà l’anello di congiunzione tra l’Italia di Jazz Re:Found e la scena inglese. Un rappresentante vero del mondo gender in maniera genuina, non costruita, adoro questo personaggio; penso che possa davvero diventare internazionale.
Opportunità per progetti italiani emergenti?
Quest’anno ce ne sono tanti, a partire dalla bravissima Joan Thiele – non è completamente emergente ma è una figura su cui stiamo investendo – che adoro e di conseguenza ho posizionato in apertura a Venerus. A parte lei ce ne sono davvero molti nel nostro nuovo cartellone. Abbiamo provato a sfruttare il fatto di non poter portare comodamente artisti da fuori per guardare meglio nel nostro giardino; non sto dicendo che prima non lo facessimo, ma quest’anno più del solito.
Parlando di economia spiccia, sarò onesto, gli artisti italiani costano anche meno, quindi non avrebbe senso tagliarli fuori solo perché sono italiani. La qualità è alta da noi, non bisogna far l’errore di considerare i progetti esteri migliori solo perché arrivano da fuori, è un mito che va sfatato in fretta!

Cultura e managerialità: cosa determina il successo o il fallimento di un evento musicale?
Per noi la chiave sta nella coerenza. Per quattordici anni abbiamo sempre proposto lo stesso linguaggio, facendo in modo che il pubblico potesse  affezionarsi e fidarsi di noi. La gente sa che partecipando al Jazz Re:Found viene a sentire musica nuova, magari mai sentita prima, ma si fida.
Nel nostro caso, la scelta di rendere la rassegna più costante durante l’anno è stata fondamentale: quando facevamo solo un festival all’anno era più tosta. Ora organizziamo almeno 10-15 eventi ogni anno tra Torino, Milano a Venezia, di conseguenza il cash flow è diventato più corposo, la macchina ha iniziato a crescere, il team anche, e per forza di cose anche la qualità.
In generale, bisogna essere in grado di creare una community vera, in modo che col tempo anche le scelte strane – come gli Apparat in full band – possano essere capite dall’audience.
Sponsor e Partner istituzionali: che tipo di dialogo c’è tra Jazz Re:Found e le altre realtà del territorio?
L’impatto sul territorio è enorme, ci sono tanti investimenti e tanti progetti di medio lungo periodo. Siamo sostenuti per esempio da Regione Piemonte e Fondazione CRT tramite bandi che ci permettono di coprire il 35% delle spese circa.
Abbiamo grande dialogo con vari sponsor beverage che però quest’anno si son tirati indietro per ovvie ragioni: c’è troppa precarietà, non si riesce a far programmi e si ha paura di fare investimenti sbagliati. Abbiamo il vantaggio di essere un festival molto appetibile, in quanto puntando sul refresh della scena, come ti dicevo prima, siamo visti come una nicchia futuribile. Il tempo ci dirà se ci abbiamo visto giusto!

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