8 febbraio 2022
Professore di arte e giornalista musicale, Marco Basso è un personaggio d’altri tempi che ha lavorato tutta la vita alla diffusione della musica, con particolare attenzione ai giovani. Per una volta l’oggetto del racconto è proprio lui, che abbiamo intervistato. Buona lettura!
Come ti sei avvicinato alla musica?
Sono sempre stato appassionato di musica! Ho avuto la fortuna di avere dei nonni che mi portarono a vedere i Beatles nel 1966 a Londra, e da allora ho ascoltato prima il rock, poi il blues e infine il jazz, sempre andando a ritroso e alla ricerca delle origini. Nel frattempo molto amatorialmente mi dilettavo alla batteria, e alle medie suonavamo in uno scantinato io, Carlo Rossi, Mixo e Luca De Gennaro. Dopo le medie io e Carlo (che compravamo i dischi in società perché non avevamo tanti soldi) abbiamo continuato a suonare in uno scantinato che poi diventò il Transeuropa studio. Lui in effetto si affermò come produttore e io mi dedicai invece alla radio.
Nel settembre del 1976, appena finita la maturità, feci un provino per il GRP: una grande occasione e una grande palestra, perché trasmettevamo tutti i giorni con almeno due ore di musica. Io mi occupavo di rock e jazz, a volte anche di cantautori. Nel 1983 poi vinsi un concorso nazionale in RAI e fino al 1997 ebbi la possibilità di realizzare tanti contenuti. A partire dagli anni 90 ho iniziato a collaborare con La Stampa, che aveva uno spazio per il jazz, che da allora seguo costantemente.
Rai Stereodrome 1986 al palasport per il concerto di Manu Dibango
Sicuramente oggi si è più superficiali, una volta si potevano fare tanti riferimenti perché chi leggeva aveva una cultura più ampia e profonda; questo tipo di cultura non c’è più, i tempi sono velocissimi, viviamo un gorgo di velocità e immediatezza che alla fine si trasforma in superficialità. Non c’è più quella storicizzazione che l’ascoltatore aveva nel suo bagaglio: si conosceva il passato, i dischi importanti, e così via. Paradossalmente ciò capita in un’era in cui si può accedere a tutto.
Come ritieni che sarà il futuro della musica e del jazz?
Dal punto di vista artistico a mio avviso c’è una classicizzazione del jazz, che è diventata una musica da conservatorio; molti fanno filologicamente “il verso” ad altri artisti ed è molto difficile trovare qualcuno che proponga qualcosa di nuovo, mentre c’è una grande capacità di ricostruire stilemi del passato. In un certo senso il jazz si è trasformato in una sorta di “musica classica”.
Hai cinque minuti per parlare con il Presidente del Consiglio per illustrargli la tua idea per salvare la musica: cosa gli suggrici?
L’unico modo per riuscirci a mio avviso è quello di andare nelle scuole e portare la musica ai ragazzi, raccontarla, fargliela vivere. Ho praticato tanti anni questa attività con “Le chiavi della musica”, un progetto didattico che era stato attivato dalla città di Torino. Bisogna agire in quell’età e dare stimoli e impulsi, portare i giovani a vedere i concerti, cercare di entusiasmarli.
con Peter Erskine
Quali consigli daresti a un musicista per promuoversi?
Una volta c’erano gli showcase, in cui il musicista invitava i giornalisti e parlava di quello che aveva fatto, e lo raccontava coinvolgendo, Mandare un disco è un po’ anonimo, mentre contagiare e raccontare l’obiettivo che si è perseguito, e farlo “toccare” dai timpani di chi hai davanti, è molto utile.
Sei più ottimista o pessimista per il futuro della musica?
La musica è un elemento talmente positivo e porpositivo nella vita delle persone che non può smarririsi; certo è un momento non meraviglioso. Ho sempre detto a tutti che se non ci fosse stata la musica sarei stato più triste, mi ha rallegrato e rafforzato, anche culturalmente. Il problema grosso della nostra epoca è la fruizione passiva della musica, la bassa fedeltà e l’ascolto distratto. Inoltre finché non si troverà un supporto che sostenga il lavoro di musicista sarà dura: l’astrattismo del digitale non è funzionale.
con Luca Morino, Rai Stereodrome 1986
Tre artisti cui sei legato.
Tutto è partito per me con Jimi Hendrix, che mi ha aperto gli occhi; ricordo che in seconda media avevo comprato “Axis: Bold As Love” e da lì ho cominciato il mio percorso musicale. Per il jazz cito Duke Ellington, che ascolto tantissimo, mi piace la sua elucubrazione della musica nera a mericana. Poi Miles Davis, naturalmente, e ho un grande affetto per Chick Corea e Herbie Hancock, che ho sempre seguito con piacere da “Bitches Brew” in poi. Altri mondi me li hanno infine aperti Joe Zawinule e i Weather Report.
Una vita in musica: un espresso con Marco Basso copyright Jazzespresso 2022.
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